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April 18th, 2010 | Category: vita

trascrivo volentieri quest’articolo di Michele Serra, apparso sul Venerdi’ di Repubblica della scorsa settimana (9 aprile 2010)

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Nell’era della chirurgia plastica anche il disagio e’ un neo da togliere

Chi c’e’ dietro il dilagante potere delle case farmaceutiche? Ma e’ ovvio: ci siamo noi. Non siamo solo le vittime, non siamo solo i complici, siamo anche i mandanti della medicalizzazione della vita. Se ogni disagio diventa un insopportabile dolore, se ogni mancanza diventa una voragine nella quale temiamo di sprofondare, la nostra soggezione all’aiuto farmacologico, al sostegno psicologico, aumenta in progressione geometrica.

Accettare l’imperfezione, sopportare il limite, non sembra una qualita’ del nostro tempo. Peccato che niente sia piu’ vulnerabile (meno perfetto) dell’ansia di perfezione: ci rende insicuri, fragili e permeabili ad ogni speculazione sulla nostra fragilita’.
Se il timido, il nervoso, il troppo sensuale, il vivace si convincono della natura sindromica di un tratto della loro personalita’, ecco che aumenta a dismisura il target degli impasticcabili. In fin dei conti poter medicalizzare un difetto, o un ingrediente indigesto del nostro carattere, ci permette di estroiettarlo: non sono io, “quella cosa li'”, e’ un accidente, un’intrusione, un virus, un corpo estraneo del quale liberarmi.

Alla chirurgia di massa minaccia di sommarsi anche la smania di estirpare i difetti, veri o presunti, della nostra fisionomia psicologica. E la “personalita perfetta”, cosi’ come sortisce da questo quadro ossessivo, assomiglia molto al “volto perfetto”, prodotto dai bisturi: seriale, omologato, con i connotati individuali cancellati insieme alle rughe. Come se la scrittura della vita contenesse tali e tanti errori che e’ piu’ prudente, piu’ rassicurante azzerarla.

(Meglio non avere faccia che averne una troppo impegnativa, sembrano dirci i volti piallati di migliaia di signore. Qualcuno deve averle convinte che l’eta’ e’ solo una sindrome: il tempo e’ una malattia?)

Credo che “disagio” sia la parola chiave. Nei nostri anni ogni normale sottozero invernale diventa “gelo polare”, e ogni normale canicola estiva diventa “caldo record”.
E “Italia paralizzata dal gelo” e’ il titolo terrifico – e rituale – che accompagna il ritardo dei treni, gli ingorghi causati dalla neve, le astanterie che si affollano di anziani fratturati, insomma una straordinarieta’ cosi’ prevedibile da far parte, a pieno titolo, della normalita’.
Una specie di pigrizia nevrastenica (ossimoro) ci fa considerare inaudito e insopportabile qualunque intoppo, qualunque fatica straordinaria. Se ogni disagio diventa “emergenza”, ogni stato di malessere diventa “malattia”. E in un paio di generazioni siamo passati dal negazionismo bigotto (quando la depressione, lei si’ una sindrome in piena regola, era considerata un banale cattivo umore) all’estremo opposto: una credulita’ disarmata di fronte alla medicalizzazione di tutto.

Salutismo compulsivo e ipocondria di massa mi sembrano fortemente alimentati dalla dilagante incapacita’ (questa si patologica) di affrontare il disagio.
Non il dolore, o la tragedia, o la morte: il disagio. La normale fatica di convivere con ostacoli esterni e interni, intoppi sociali e privati.
Qualunque cosa che appartiene al corso quotidiano delle cose. L’abitudine alla nostra inadeguatezza, quel famoso “sapersi accettare” che a partire dal mondo classico e’ uno degli obiettivi della maturita’.
Suscita una ragionevole paura un mondo che crede di poter “guarire” da se stesso con una pillola, anzi con mille pillole per ciascuna delle mille inquietudini che ci fanno compagnia.
Fa paura perche’ e’ – soprattutto – un mondo immaturo, non adulto.
Suggestionabile. Continuamente bisognoso di una “guida” esterna.
Il miglior mondo possibile per chi vuole vendere non solo pillole, ma tutto il vendibile.

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